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[Recensione] Blogistan

Sreberny, A. e Khiabany, G. (2010). Blogistan: The Internet and Politics in Iran. London: I.B. Tauris.

A poco più di trent’anni dalla rivoluzione islamica l’Iran sembra attraversare un’altra, importante fase di transizione. Le proteste del 2009, scoppiate all’indomani di un controverso risultato elettorale, hanno attirato l’attenzione della stampa internazionale la quale, dovendosi affidare alle fonti locali capaci di stabilire un contatto con l’esterno, ha spesso enfatizzato il ruolo dei nuovi media. The Revolution will be Twittered, titolava Andrew Sullivan, attribuendo a una big company americana il successo dell’ennesima (mai l’ultima) rivoluzione tecno-democratica nel sud del mondo. Questo l’approccio attraverso cui molti commentatori hanno raccontato, e raccontano, il dissenso politico contemporaneo.

La pubblicazione di Blogistan rappresenta un contributo fondamentale in questo senso. Annabelle Sreberny e Gholam Khiabany propongono una lettura multidimensionale della blogosfera iraniana, situandola all’interno di processi storici, sociali e politici, ed evitando così di riprodurre i limiti teorici che hanno finora caratterizzato larga parte del discorso sui media nel sud globale. Un passaggio, in particolare, ne riassume bene i tratti (6-7):

While media theory is in desperate need to renew itself and break out of its geographical confines of the ‘West’, it also needs to move away from the culturalist assumptions that have entrapped much of the debate about international communication, including modernisation theory. We must avoid simply inverting the tradition/modernity dichotomy so that we overvalue the ‘traditional’ and line up the commercial, rootless, banal and pre-packaged ‘western’ products against the ‘authentic’, ‘organic’ and deeply rooted cultures of the ‘east’.

Approcciata in questo modo la blogosfera iraniana diventa un ambiente estremamente dinamico, fluido. Un’idea che gli autori scelgono di rendere attraverso la categoria del politico, ripresa da Chantal Mouffe, preferendola alla sfera pubblica habermasiana. Quello del politico è un concetto fondamentale per l’economia di tutto il libro, su cui gli autori si soffermano a lungo nel secondo capitolo.

Il quadro che risulta da un’analisi di questo tipo è quello di un’ecologia complessa, fatta di relazioni individuali e collettive spesso in competizione, anche a livello istituzionale. Uno dei sicuri meriti è quello di aver prodotto una precisa analisi del ruolo dello stato iraniano che, se da un lato rappresenta il principale motore dello sviluppo informatico del paese, dall’altro ha la paradossale esigenza di implementare stringenti misure di controllo sociale per fronteggiarne gli effetti destabilizzanti (cap. 1, 3). Effetti che, non di rado, generano tensioni anche all’interno dell’establishment.

Lo stesso metodo viene poi applicato al segmento sociale della blogosfera iraniana. I due capitoli centrali trattano il femminismo e l’attivismo politico. Il capitolo quarto ricostruisce l’evoluzione storica e politica dei diversi movimenti femministi, contestualizzando l’ascesa del femminismo islamico e dando ampio spazio a quelle pratiche di ordinaria resistenza che Bayat definisce “arte della presenza”. Il capitolo quinto descrive l’estrema eterogeneità dello spettro politico: gli autori rileggono i principali dibattiti attraverso il concetto gramsciano di lavoro intellettuale. Dopo due brevi capitoli su diaspora e giornalismo partecipativo, il libro si chiude con una riflessione sulle proteste del 2009 che induce Sreberny e Khiabany a optare per un finale fiduciosamente aperto (181): “Democracy is an endless performance and Iran surely has a lot more political theatre to come”.

* Pubblicato il 26 gennaio 2011 qui.

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