Diceva bene Gino Strada: “la guerra ci viene sempre presentata così: umanitaria, inevitabile, necessaria” (Annozero, 24/03/11). Ma non si tratta, come sostiene Strada, dell’invenzione di un “semi-leader del centrosinistra italiano” (leggi D’Alema). Dovrebbe ormai essere chiaro che la nostra classe politica è lo scemo del villaggio globale in questi casi. L’origine del discorso umanitario sulla guerra va decisamente cercata altrove.
La cosa sembra peraltro rimossa dal dibattito sul diritto internazionale. In uno degli ultimi post sulla Libia di Fabio Marcelli, un ricercatore di studi giuridici internazionali che cura un blog sul Fatto, si percepisce un senso di impotenza di fronte al modo in cui princìpi basilari del diritto internazionale, come quello di non intervento, vengono constantemente scardinati attraverso l’uso strumentale di concetti etico-giuridici “di forte vaghezza”, come la responsabilità di proteggere i civili.
Sia chiaro che apprezzo gli interventi di Strada e Marcelli, ma trovo che abbiano un problema in comune. In entrambi non viene evidenziata la matrice del repertorio linguistico impiegato ad nauseam prima di ogni campagna militare, soprattutto quelle “liberal-democratiche”: emergenza, intervento umanitario, uso inevitabile/proporzionato della forza, necessità/responsabilità di proteggere i civili. Invece di pensare a D’Alema, dovremmo piuttosto concentrarci su San Tommaso d’Aquino, sul suo principio di doppio effetto e, soprattutto, sulla teoria della guerra giusta (bellum iustum).
Ne parla Talal Asad, un professore di antropologia da tempo impegnato a fare le pulci alle cosiddette istituzioni secolari del cosiddetto occidente. Nel 2007 Asad pubblica un libro sul terrorismo (On Suicide Bombing) in cui il fenomeno viene analizzato evitando il ricorso a “spiegazioni di natura motivazionale”, come notava Jol in una recensione all’edizione italiana. Un approccio che Asad ha applicato anche alla guerra, partendo proprio dalla ‘guerra giusta’ e dal “rinnovato interesse” nei confronti di questa teoria all’epoca della War on Terror, quando si cercava un argomento giuridico che distinguesse la violenza del terrorismo da quella dei militari:
In ‘just war’, it is said, civilians may not be targeted-unless of course damage to them is absolutely necessary and proportional to the objective. This view derives from the doctrine of double effect that goes back to Aquinas, and has been developed over the centuries in many works of moral theology. The doctrine maintains that doing evil is prohibited but that the use of neutral means for a good end is permitted even though it will have incidental evil results-so long as these are not disproportionate to the intended good, and the means are necessary.
Uso necessario/proporzionato della forza, si diceva. Talal Asad è ben attrezzato per questo genere di critiche perché da anni porta in superficie le radici religiose delle istituzioni secolari contemporanee (Genealogies of Religion, per esempio). Sempre all’interno della teologia medievale cristiana, Asad isola un altro passaggio cruciale per il discorso sulla guerra, che riguarda in particolare l’omicidio:
[I]n the early Middle Ages all killing […] was considered homicide-a sin requiring the warrior’s formal penance after hostilities had ceased. It was killing or maiming humans as event not as motive that mattered. In the 12th century, however, a new theology of penance was developed in which the intention to commit sin became critical: killing in war could now be a virtue so long as it was done with the right motive […]
L’evoluzione del concetto è decisamente più articolata. La teoria della ‘guerra giusta’ è presente nel diritto romano e numerosi elementi di novità sono stati introdotti nel corso della storia. Ma la logica di fondo è quella formulata dalla teologia medievale cristiana, che è dunque fondamentale per comprendere, e criticare, non solo la guerra in sé ma anche, e soprattutto, le pratiche discorsive attraverso cui essa viene tuttora giustificata. Perché prima di farla, una guerra si giustifica. All’interno della logica della ‘guerra giusta’, il diritto internazionale ha questo compito: giustificare in termini legali una superiorità di tipo etico e morale. Funzione di cui partecipa la scelta del repertorio linguistico con cui veniamo metaforicamente bombardati dai media: emergenza, intervento umanitario (ius ad bellum); uso necessario/proporzionato della forza, necessità/responsabilità di proteggere i civili (ius in bellum).
Questa è la radice ultima di epifenomeni minori come i dibattiti politici di casa nostra, tanto convoluti quanto inutili (quante persone è giusto uccidere? Fino a che punto è giusto torturare una persona?). L’assunto fondamentale resta incontestato: la distinzione etica -sempre già data e non giuridica- dell’uso della violenza, giustificata in termini legali. La guerra giusta, come dice Asad, è semplicemente “un modo legale per separare l’omicidio virtuoso da quello deprecabile”.