Sembra sempre più fondata l’ipotesi secondo cui Osama bin Laden sarebbe stato “venduto” agli americani, resta da capire chi possa averlo fatto. Tariq Ali è convinto che si tratti di qualcuno dell’intelligence pakistana, e riporta una conversazione avuta nel 2006 con una sua vecchia conoscenza. Il dialogo è qui, ne riporto solo i passaggi conclusivi:
‘Three people know. Possibly four. You can guess who they are.’ / I could. ‘And Washington?’ / ‘They don’t want him alive.’ / ‘And your boys can’t kill him?’ / ‘Listen friend, why should we kill the goose that lays the golden eggs?’
Altri analisti, invece, sostengono che bin Laden sarebbe stato tradito da qualche sodale. E per un motivo ben preciso. A conferma di quanto scrivevo stamattina, il mondo si preannuncia migliore solo nell’ottica del controllo militare e poliziesco della regione da parte dell’America. È questa la tesi di Ruben Weizman, secondo cui bin Laden è decisamente più utile alla causa qaedista da morto:
Al Quaeda [sic] aveva urgentemente bisogno di un martire, ma non di uno qualsiasi, bensì di un martire di alto livello che risvegliasse nei gruppi dispersi all’estero e ormai braccati senza tregua, quella voglia di martirio per la causa della Jihad ormai persa negli ultimi mesi. Non per niente nei forum quaedisti ieri pomeriggio c’è stata una impennata di volontari pronti al martirio come non si vedeva da molto tempo.
Il rinnovato slancio radicale sarebbe stato alimentato dalle dichiarazioni della CIA, i quali hanno ammesso di non essere affatto interessati a prendere Osama bin Laden vivo. Weizman aggiunge un altro elemento interessante, utile a interpretare i futuri sviluppi del jihadismo qaedista. L’analista sostiene che Osama potrebbe essere stato ‘bruciato’ a causa di un insanabile contrasto con il supremo ideologo di al Qaeda, Ayman al Zawahiri, il quale mal sopportava la sua recente inoperosità.
Il pezzo di Weizman mi trova in diasccordo quando definisce al Zawahiri “vicinissimo alla Fratellanza Musulmana egiziana”: la matrice ideologica è sicuramente quella, ma da almeno 30 anni l’ideologo egiziano propugna un islamismo radicalmente diverso da quello dei Fratelli Musulmani, attaccati numerose volte proprio per aver scelto la via istituzionale. A parte questo, però, bisogna ammettere che al Zawahiri ha raramente perso una disputa ideologica all’interno di al Qaeda. Anzi, i suoi contendenti hanno fatto una brutta fine.
Il caso celebre riguarda l’altro ideologo di spicco del movimento, ‘Abdallah ‘Azzam. La disputa viene ricostruita nell’antologia dei testi di al Qaeda curata da Gilles Kepel (Laterza, 2005). ‘Azzam salta in aria a Peshawar il 24 febbraio del 1989, quando l’esercito russo si era ritirato dall’Afghanistan e il sostegno di americani e sauditi ai mujahidin stava venendo meno. Secondo Thomas Hegghammer, che ha curato il capitolo su ‘Azzam, l’omicidio potrebbe essere stato commissionato da al Zawahiri, il quale da tempo si opponeva alle posizioni strategiche e ideologiche di ‘Azzam: “il primo voleva condurre il jihad contro «il nemico vicino», i regimi arabi, mentre il secondo voleva che gli arabi afghani restassero in Afghanistan” (103).
Si tratta di una delle tante ipotesi circolate, di cui l’autore da conto nel libro, che tuttavia va tenuta in considerazione proprio in virtù del potere e dell’influenza di al Zawahiri all’interno di al Qaeda: se non sarà lo stesso al Zawahiri, il successore di bin Laden dovrà farci i conti e avere la sua benedizione. E, da questa prospettiva, la notizia della morte di Osama bin Laden potrebbe rappresentare un elemento di continuità piuttosto che di rottura.