Skip to content


Dottorand* precari*, sveglia!

Oggi Repubblica ti mostra la via per uscire dalla miserrima condizione socio-esistenziale in cui ti ostini a vivere. Stai facendo un dottorato, per di più in una disciplina umanistica? Sei decisamente passé, lasciatelo dire, la tua naïveté ispira pietà e compassione.

Perché ti ostini a puntare “tutto sul dottorato per poi ritrovar[t]i al bar sotto casa a chiedere lavoro”? Non senti anche tu il bisogno di “diventare finalmente una persona adult[*]”? Se la risposta è sì devi assolutamente leggere la storia di Martina, uscita con successo dal precariato della ricerca. Come ha fatto? Semplice: ha smesso di studiare e chiesto un lavoro a Montezemolo che le ha subito offerto un posto da capotreno.

Sai chi è Montezemolo, vero? Quello che ha appena fondato una compagnia di trasporto ferroviario. Sai che noi del centro-sinistra da tempo sussurriamo il suo nome quando si parla dell’ennesimo uomo della provvidenza per la politica italiana? È per via di un’odiosa sindrome di Stoccolma che ci attanaglia dal 1989, quando la caduta del muro di Berlino ci ha fatto persuasi che la Storia sia finita a Washington, for real.

Ma non è forse così? Dico, leggi la storia di Martina. Prima della conversione al turbocapitalismo la sua vita era un disastro, proprio come la tua. Aveva un ottimo curriculum, verosimile come solo in Italia sappiamo fare: due lauree, “Erasmus a Londra”, “post-laurea a Berlino” e una borsa di dottorato vinta a soli 24 anni. Poi, dopo due lauree in sei anni, è cominciato il calvario del dottorato:

All’inizio ero contenta, avevo tante idee e progetti per la testa, ma alla fine mi scontravo sempre con qualcuno che cercava di tagliarmi le gambe. Io e i miei colleghi, tutti precari, venivamo trattati come ragazzini di 18 anni: troppo piccoli (alcuni hanno 30 anni) per partecipare a un convegno, figuriamoci per fare qualche esperienza di insegnamento.

Un momento estremamente difficile che Martina decide di lasciarsi alle spalle accettando un’offerta di lavoro. A cambiare non è semplicemente lo stipendo ma un orizzonte esistenziale: “[q]uando sono entrata all’università avevo in mente solo la carriera, ero più arrivista; adesso desidero una famiglia e un po’ di stabilità”. Adesso è tutto più chiaro: la soluzione al precariato della ricerca è abbandonare la ricerca e dedicarsi alla famiglia, tanto più se portatrici d’utero.

Posted in Mai Abbastanza.

Tagged with , , , .


5 Responses

Stay in touch with the conversation, subscribe to the RSS feed for comments on this post.

  1. Paolo84 says

    Bè io però non me la prenderei con questa ragazza perchè desidera stabilità e famiglia, anch’io vorrei queste cose e non ho un utero.
    Martina ha fatto la sua scelta, rispettabile come sarebbe stata rispettabile pure la scelta contraria. Martina è una capotreno, svolge mansioni di responsabilità non è una “serva di Montezemolo” o una “donna oggetto” oppure una “hostess di bordo” (come se poi ci fosse qualcosa di male a fare le hostess) come è stata definita nell’articolo di Femminismo a sud. Invece di insultare questa ragazza che vive la sua vita come meglio crede, non sarebbe il caso di criticare il sistema che non valorizza i giovani laureati e laureate?

    • melone says

      Ciao Paolo84,

      Le scelte di Martina non sono in discussione. Il punto è il modo in cui la sua storia viene confezionata e utilizzata. Repubblica crede di prendere due piccioni con una fava: fare una marketta alla nascitura NTV raccontando una storia (positiva) di uscita dal precariato. In realtà fa solo la prima, per il resto fa più danni che altro.

      Il problema in sé, il precariato della ricerca, viene evaso perché impossibile da risolvere. Martina ha scelto di abbandonare la ricerca? Felicitazioni. Quelli che vogliono continuare che fanno? Sono solo due le soluzioni: trovarsi un lavoro o continuare a fare la fame. C’è posto per proposte alternative oppure dobbiamo abolire i dottorati di ricerca in discipline umanistiche e cercarci tutti/e un lavoro “serio”?

      C’è poi la rappresentazione di chi ha scelto di continuare a fare ricerca: una persona non ancora adulta, che accetta di farsi trattare da 18enne per poi ritrovarsi a chiedere lavoro al bar sotto casa. Qual è il problema qui? Le persone che sopportano di tutto pur di fare ricerca oppure quelli che li trattano da 18enni? Di nuovo, per la storia il problema sono i precari, che sono infantili, e non chi li infantilizza. La soluzione è abbandonare la “vita da studente” e trovarsi un lavoro da “persone adulte”.

      C’è infine la rappresentazione femminile. Martina traccia un prima e un dopo l’offerta di lavoro: prima, all’università, era disperata e arrivista; con il lavoro comincia a desiderare famiglia e stabilità. La cosa mi fa sorridere: a me sembra che in ambito aziendale la competizione sia piuttosto importante, e che il precariato esista anche nel mondo del lavoro. Ma lasciamo perdere. Il punto qui è l’idea di realizzazione di sé: lavoro>casa>figli. Scompare persino la voglia di migliorarsi professionalmente, sostituita da quella di stabilità e famiglia. Morale della favola: molla la ricerca, è fottuta a priori, trovati un lavoro “normale” e avrai una vita “normale”. E che cosa sia “normale”, cioé stabilità e famiglia, te lo dice una donna che, sorpresa, ritrova proprio nel focolare domestico la sua dimensione “naturale”.

      Ecco, è proprio questo mix di marketta e paternalismo italiota che è insopportabile.

  2. Paolo84 says

    Se Martina si sente realizzata attraverso un lavoro “stabile” e una famiglia buon per lei, è una realizzazione forse “piccolo-borghese” ma è un suo diritto averla, io non giudico anche perchè come ho detto, questa voglia di “stabilità” lavorativa e anche sentimentale la comprendo bene, la sento anch’io e non ci vedo niente di degradante in sè. Per il resto sono perfettamente d’accordo con ciò che scrivi sulla “confezione” dell’articolo e sul fatto che il problema dei ricercatori precari è eluso, infatti più che te criticavo il post di Femminismo a sud che mi sembrava inutilmente aggressivo nei confronti della ragazza e le sue decisioni..solo che queste critiche sul loro sito non le ho potute fare così ho “approfittato” del tuo blog.

    Ciao e grazie

    • melone says

      Non le conosco ma credo di interpretare anche le intenzioni di Femminismo a Sud quando dico che il problema è solo la strumentalizzazione del corpo, della condizione sociale e dell’immagine di Martina da parte di Repubblica, non le sue scelte personali. Magari alcune espressioni scelte per scrivere il post sono discutibili, ma dato il livello di Repubblica mi sembra il minimo.

      Approfitta pure quando vuoi …
      Ciao e buona giornata

  3. Laura says

    Sono d’accordo che una che ad un certo punto decide di cambiare strada non va di certo accusata di nulla. Ma se si usa questa storia subdolamente, come ha fatto in effetti Repubblica in questo articolo, per mancare opportunamente il vero punto della questione e contemporaneamente fare una marchetta a Montezemolo (e’ fin troppo evidente come lo portano in un palmo di mano, soprattutto ultimamente..), allora ritengo giustissimo cio’ che sia Femminismo a Sud che melone qui hanno voluto sottolineare. Tra l’altro un’altra cosa che passa, a mo’ di corollario, ma e’ pur sempre legato al messaggio carriera vs stabilita’ e famiglia, e’ questa cosa che sia impossibile avere l’una e l’altra insieme –ergo, meglio abbassare le proprie aspirazioni. E’ vero che in Italia soprattutto per carenze croniche di sistemi welfare di supporto essere una mamma in carriera e’ veramente mooolto difficile. Ma da qui a porre una singola personalissima scelta a mo’ di soluzione al precariato mi sembra veramente vergognoso, soprattutto per un giornale che dovrebbe essere di sinistra.
    Saluti e keep up with the good work.