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Il senso comune dell’occidente per l’islamofobia/2

Alla luce di quanto illustrato finora, come possiamo definire questo fenomeno? Si può parlare ad esempio di fondamentalismo religioso? La risposta è no. L’espressione “fondamentalismo religioso” è fuorviante e il suo uso non è giustificato dal fatto che sia stato impiegato in precedenza per definire l’attivismo politico di matrice islamista.

È evidente come nella retorica occidentalista l’identità religiosa non vada affermata attraverso un ritorno ai fondamenti della dottrina teologica -questo sì, “fondamentalismo”- ma nella difesa di quei “valori della civiltà occidentale” che, nelle versioni più elaborate, arrivano a comprendere persino l’anti-razzismo e l’anti-omofobia. Le “radici cristiano-giudaiche” di tale civiltà, poi, sono da localizzare nella storia secolare dell’Europa cristiana e moderna: le Crociate, la battaglia di Poitiers e Carlo Martello, l’assedio di Vienna. L’identità religiosa è pertanto un tratto culturale, slegato dalla religione. Un dato che emerge chiaramente dalla definizione che Breivik da di sé, “cultural Christian”, decisamente vicina a quelle di occidentalisti italiani come Oriana Fallaci (“ateo-cristiana”) e Giuliano Ferrara (“ateo devoto”). Un’operazione pressoché simile informa la rappresentazione del nemico, costruita polarizzando non l’elemento etnico ma quello culturale. Si può parlare ancora di razzismo? Dipende dalla definizione che diamo del termine. Se indica una forma di discriminazione dove la razza è intesa come tratto biologico, la risposta è no. Ma questa è esattamente la logica che ha favorito l’ascesa politica, sociale e mediatica della destra identitaria. Una logica, torno a ripetere, che non è affatto marginale e riservata ad uno sparuto network di nostalgici e/o xenofobi.

Tutto il contrario. Da almeno dieci anni ormai gli stereotipi negativi sull’Islam sono acriticamente recepiti e continuamente riprodotti da telegiornali e quotidiani, rafforzati dalle autorevoli opinioni di commentatori  e intellettuali, accettati dall’opinione pubblica come una verità empirica. È proprio questa la tesi di un post pubblicato da Jadaliyya dopo la strage in Norvegia Una critica feroce ai mezzi di comunicazione colpevoli, secondo gli autori, di aver reso “mainstream” gli argomenti di islamofobi della destra identitaria:

[T]he racism that motivated Breivik comes straight from the ‘mainstream.’ His ideological inspirations are prominent European politicians such as Geert Wilders, as well as media reports, columns and books written by various Islamophobic intellectuals.

In questo senso, lo slogan del SIOE suona tragicamente vero: “Racism is the lowest form of human stupidity, but Islamophobia is the height of common sense”. Il pregiudizio anti-islamico è diventato senso comune, l’incompatibilità con l’Islam accettata come dato di fatto. Ma questo è stato possibile perché l’islamofobia non è mai stata considerata né presentata come una forma di discriminazione. Alla base di questa acritica accettazione troviamo una concezione biologica e ottocentesca del termine “razza”, la stessa che ha informa le posizioni della destra contemporanea. L’Islam non è una razza ma un sistema di valori e credenze, dunque attaccarlo anche duramente rientra nel legittimo esercizio della libertà d’espressione. Una logica bi-partisan se si pensa a chi, da sinistra, parla di “frizioni culturali” con l’Islam e sostiene che “il razzismo contro l’Islam non esiste” perché “l’Islam non è una razza“.

Ma allora cos’è l’islamofobia, come possiamo definirla? L’islamofobia è e resta una forma di discriminazione in cui l’elemento razziale non scompare ma viene semplicemente ricodificato. La definizione del termine è tuttora oggetto di discussione, proprio a causa di questa sua natura originale, per così dire, diversa dalle forme di discriminazione già acquisite. I rapporti del Runnymede Trust (UK) costituiscono un ottimo punto di partenza (1997; 2004). Tra i primi a segnalare l’urgenza del problema, questi due rapporti hanno il sicuro merito di aver elaborato una definizione di islamofobia, illustrando le pratiche discriminatorie ed esclusive maggiormente diffuse. Una di queste è proprio considerare “naturale o normale” l’ostilità nei confronti dei musulmani.

È importante ricordare che esiste anche una dimensione di continuità, una relazione storica con altre forme di discriminazione. Nonostante sia un neologismo coniato in America negli anni ’70 l’islamofobia non è una novità assoluta, ma riproduce stereotipi e pratiche discriminatorie profondamente radicate nella storia delle società europee e nordamericane: xenofobia, razzismo, anti-semitismo. Alcuni autori, soprattutto quelli concentrati sull’Europa, ritengono che l’islamofobia sia una forma di xenofobia. Questo è il parere di Ronald R. Sundstrom, Associate Professor di filosofia e studi afro-americani all’Università di San Francisco, che prende in esame proprio lo slogan del SIOE (2010):

SIOE’s message is clear: racism is evil, Islamophobia is not racism, ergo Islamophobia is not evil. Racism is sidestepped, and xenophobia is eluded by its explicit absence. […] Islamophobia is judged, in contrast with racism, to be reasonable and rational, and the label “Islamophobe” is embraced as a rallying cry. Yet, xenophobia lingers in the structure of the term (“Islam” + “phobia”). Muslims simply and terrifyingly are the xenos, the “stranger” or “foreigner”, in this instance. […] Just as other ethnic, racial, and religious groups have been demonised as a foreign, total threat, so are Muslims in the current wave of fear and hatred. Do not be fooled by submergence of the general term xenos in SIOE’s prideful slogan: Islamophobia is a form of xenophobia.

Altri hanno preferito riportare al centro delle proprie analisi la razza. In questi casi l’islamofobia è considerata una forma di “razzismo culturale” dove il concetto di religione e quello di razza si sovrappongono e interagiscono continuamente. Questa è la prospettiva applicata da Junaid Rana, Associate Professor di Asian American Studies all’Università dell’Illinois, per analizzare le retorica islamofoba impiegata nella campagna contro la moschea di Park51 (2010). La sua ipotesi è sviluppata su una genealogia del concetto di “islamofobia” che dimostra come l’origine del concetto di razza sia intimamente connessa a quello di religione, una relazione che ha assunto configurazioni diverse in diverse epoche storiche. Secondo Rana questa è la prospettiva necessaria per definire una forma di discriminazione solo apparentemente “culturale” come l’islamofobia, la quale sarebbe invece costruita sulla base di una logica razziale capace di mutare nel tempo e operare anche su elementi come il genere o la nazionalità ad esempio (2007):

[T]he Muslim is constructed through a racial logic that crosses the cultural categories of nation, religion, ethnicity, and sexuality. The placement of the Muslim in the U.S. racial formation encompasses a broad race concept that connects a history of Native America to Black America to immigrant America in the consolidation of anti-Muslim racism.

L’operazione fondamentale per comprendere la natura dell’islamofobia è proprio questa rimodulazione dei concetti e delle loro relazioni. È davvero difficile non pensare ai numerosi casi di cronaca in cui la violenza del colpevole viene connotata razzialmente attraverso la nazionalità, il genere, la religione o la condizione sociale. Per i Misseri italiani non è mai necessario specificare il grado di religiosità, mentre è sempre il musulmano in quanto tale a commettere una violenza domestica; così come colui che violenta è sempre uno “stupratore” se italiano oppure è egiziano, marocchino, tunisino, immigrato, clandestino.

Un modo particolarmente efficace per definire questa operazione si trova nell’ultimo libro di Hamid Dabashi: Brown Skin, White Masks (2011). Secondo l’intellettuale iraniano, Professore di Iranian Studies e Letteratura Comparata alla Columbia University, l’islamofobia è una riconfigurazione delle relazioni di potere su base razziale, dove brown è il nuovo black e Muslim il nuovo Jew:

[I]n present-day North America and Western Europe-and by extension the world they seek to dominate-brown has become the new black and Muslims the new Jews. This is because a recodification of racist power relations is the modus operandi of an ever-changing condition of domination in which capital continually creates its own elusive cultures. (6)

Quando è avvenuto questo passaggio? È possibile localizzarlo in maniera più precisa? Come ricordavo poco sopra, il pregiudizio anti-islamico ha radici storiche profonde ma è, allo stesso tempo, il risultato di mutazioni piuttosto recenti. Una di queste è avvenuta con l’undici settembre e la War on Terror. Quello appena trascorso è un decennio cruciale per lo sviluppo e la diffusione dell’islamofobia, segnato dal successo editoriale di pamhplet incendiari come “La rabbia e l’orgoglio” di Oriana Fallaci (2001; 2004), Eurabia di Bat Ye’or (2005) e Londonistan di Melanie Phillips (2006). Ma sarebbe limitante concentrarsi solo sull’influenza di questi pamphlet considerandoli, come molti hanno fatto dopo la strage di Oslo e Utøya, i principali riferimenti ideologici dei movimenti islamofobi. Sono meriti che non hanno poiché nella maggior parte dei casi rivisitano temi tutt’altro che originali. Titoli come Eurabia o Londonistan non fanno altro che divulgare il paradigma epistemologico che ha tracciato la nuova traiettoria dell’Occidente dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda.

Non si trova nelle pagine di Eurabia ma in un articolo di Samuel Huntington apparso nel 1993 su Foreign Affairs. Lo “scontro di civiltà”, che a ben vedere è frutto della collaborazione di tre accademici di lungo corso: Francis Fukuyama, Samuel Huntington e Bernard Lewis. È da qui che bisogna partire, dalle pagine di “The End of History?” (1989), “The Clash of Civilizations?” (1993) e svariati volumi di Bernard Lewis (1916-). Fine della storia, conflitto di civilità, incompatiblità dell’Islam. Sono queste le coordinate seguite per tracciare la nuova traiettoria dell’Occidente. È ancora Dabashi a catturare questo processo con estrema precisione:

Fukuyama declares that Western liberal democracy has triumphed over all the alternatives; Huntington recasts this triumphalist idea in the language of conflict, proposing that Western civilization now faces great threats from its Islamic and Chinese nemeses. […] Soviet Communism yielded to Islamism as the West’s new nemesis. […] For about four years, the West was in a state of limbo, not quite knowing what to do with itself after Fukuyama […] declared it triumphant, until Huntington […] manufactured a new global enemy for it. […] The emergence of Islam as the nemesis of the West gave a new lease of life to old-fashioned Orientalism. Among those who have made careers out of glorifying Western civilization and lamenting its vulnerability to the threat of Islam, no one could outdo Bernard Lewis […] who began his career in the intelligence corps of the British army and ended it as a consultant to the Pentagon-thus linking British colonialism and American imperialism in the span of a single life. (10-11)

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica -che sanciva il trionfo delle democrazie occidentali, definitivo secondo Fukuyama- Huntington fu tra i primi a ipotizzare uno scenario geopolitico in cui i conflitti sarebbero avvenuti lungo le “faultlines” culturali delle principali “civilità”. Bernard Lewis era in possesso del vocabolario concettuale più adatto a definire questa nuova dimensione non più politica ma culturale del conflitto, perché soprattutto l’Oriente arabo-islamico era già caratterizzato in questi termini. Proprio questo è l’Oriente contrastato in maniera sempre più radicale da intellettuali e movimenti islamofobi. Ed è dall’ elaborazione di paradigmi alternativi a quello dello scontro di civiltà che si deve ripartire per contrastare la diffusione del pregiudizio anti-islamico, per fare in modo che l’islamofobia non sia più senso comune.

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