Annoto alcuni passaggi da un breve saggio su area studies e prospettive di genere, pubblicato nel 2001 da Ella Shohat*. L’autrice registra con estrema precisione trappole e derive del multiculturalismo contemporaneo, in alcuni casi anticipando fenomeni ampiamente diffusi in contesto nordamericano.
Shohat critica innanzitutto la tendenza ad analizzare le questioni di genere “all’interno di spazi discorsivi ghettizzati e geograficamente definiti”. L’alternativa proposta è un “approccio relazionale” che veda il femminismo come “un sito polisemico di posizioni contraddittorie”.
Per fare questo è necessario evitare alcune trappole metodologiche. Lo studio delle “donne arabe” e/o “mediorientali”, ad esempio, finisce spesso per riprodurre una visione eurocentrica di femminismo globale:
Eurocentric versions of global feminism (not unlike the paradigms that inform the sociology of modernization, the economics of development studies, and the aesthetics of postmodernism) assume a telos of evolution toward a reductive identity practice. Performed within the discursive framework of development and modernization, the study of broad and in some ways fictive entities such as “Middle Eastern women” and “third-world women” reproduces Eurocentric notions of culture under the sign of global feminism.
Un effetto particolarmente problematico di questa articolazione del multiculturalismo è stato, secondo l’autrice, quello di aver legittimato una sorta di “sponge/addictive approach” all’interno dei women studies nordamericani :
[P]aradigms that are generated from a U.S perspective are extended onto “others” […]. This kind of facile additive operation merely piles up newly incorporated groups of women […] all of whom are presumed to form a separate and coherent entity, easily demarcated as “difference.” This form of multiculturalism and internationalism undergirds most global feminism.
A questo bisogna aggiungere una forma implicita di nazionalismo metodologico. Anticipando il lavoro di Jasbir Puar sull’omonazionalismo, Shohat nota come l'”eccezionalismo nazionalista” si rifletta tanto nell’offerta formativa quanto nei discorsi di alcuni segmenti dei movimenti sociali:
Although nationalism is often seen as a specifically third-world malady, it is no less relevant to ethnic studies as well as to feminist and queer movements in the United States. […] In this context, ethnic studies and women’s and gay and lesbian studies can deploy a largely unconscious, nationalist exceptionalism.
Da questa prospettiva le criticità e i limiti degli area studies emergono chiaramente. Il criterio geografico che fonda la disciplina rimuove incontri e connessioni mentre erige confini per creare un’entità da mappare, conoscere, disciplinare:
We should pay attention in particular to the ways that universities erect disciplinary borders to maintain conceptual boundaries that continue to reproduce the discursive quarantine of fields of inquiry. The majority of women in the world can only be found in the margins of most curricula, fenced off into the Bantustans called area studies.
L’alternativa è far ri-emergere le connessioni rimosse, “re-immaginando lo studio di regioni e culture in modo da trascendere i confini concettuali inerenti alla cartografia globale della guerra fredda”. Shohat propone un lavoro di cartografia basato su un’accezione “translinguistica, dialogica e storicizzata” del concetto di relazionalità, e capace di “tradurre” le idee da un contesto all’altro.
* Shohat, Ella (2001). “Area Studies, Transnationalism, and the Feminist Production of Knowledge“. Signs, 26 (4). Un essay dal titolo simile è uscito su Social Text nel 2002 (.pdf).